Giuseppina Elisabetta Armici si è laureata in Lettere all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia e ha insegnato in scuole di diverso ordine e grado. Da quando ha lasciato l’insegnamento dedica buona parte del suo tempo alla scrittura: ” Favole- Per adulti bambini e bambini adulti” Albatros è il suo lavoro letterario di esordio; inoltre ha anche scritto “Istruzione. Flash” Book Spirit e ” Il miracolo” ( ricostruzione immaginaria di un evento documentato e accaduto a Cividino nel 1597).
La shoah è stata una delle più grandi e folli tragedie della storia. Lo status di uomini venne negato agli ebrei per impadronirsi dei loro beni, sfruttarli fino al limite delle loro forze come animali, anzi peggio e mandarli a morire se e quando non servivano più.
Questa è la storia di uno di loro, non è inutile ancora oggi raccontarla e ricordarla in un mondo imbarbarito da correnti di palese o strisciante razzismo e negazione della comune dignità umana.
Piero Terracina
La sua famiglia risiedeva a Roma da tempo immemorabile, il nonno era nato nel ghetto.
I genitori erano molto religiosi e antifascisti. Il padre frequentava assiduamente il tempio e la madre ogni sera recitava con devozione il tefillah (preghiera). Avevano quattro figli, Piero era nato nel 1928 e in casa viveva anche un nonno, Leone David, di 84 anni.
Grande importanza veniva data in famiglia alla scuola e allo studio, pertanto quando, con l’emanazione delle leggi razziali del 1938, ai bambini ebrei venne impedito di frequentare la scuola pubblica il trauma che ne seguì fu grande per tutti.
Nel novembre del 1938, compiuti da pochi giorni i dieci anni, come ogni mattina Piero Terracina si presentò in classe, ma subito notò qualcosa di insolito negli sguardi dei compagni. L’insegnante fece l’appello ignorando il suo nome e alla fine gli comunicò che doveva uscire dalla classe. Ne chiese la ragione, non capiva, gli sembrava di non aver fatto nulla di male, uscire dalla classe era una punizione riservata a chi aveva infranto qualche regola o aveva commesso un’azione molto riprovevole.
“Perchè sei ebreo” rispose l’insegnante.
Smarrito e arrabbiato, si sentì vittima di un’ingiustizia inspiegabile. Uscì e andò a piangere disperatamente dalla bidella che lo consolò come poteva e poi tornò a casa dove il padre cercò di spiegargli i motivi che avevano portato a quel profondo cambiamento nella sua vita e in quella di tutti gli ebrei italiani.
In seguito al divieto di frequentare la scuola pubblica vennero allestite in tutta fretta a Roma, come in altre città che ospitavano comunità ebraiche, scuole alternative per accogliere gli alunni provenienti da istituti di vario ordine e grado. L’insegnamento era impartito da docenti ebrei allontanati da ogni settore statale per le stesse ragioni e il padre lo iscrisse ad una di queste scuole. Nei giorni che seguirono alla sua espulsione nessun compagno, nessun genitore si fece vivo per avere notizie o solo per esprimere solidarietà, tutto avvenne nella totale indifferenza della compagine sociale che fino a quel momento aveva costituito il suo mondo. Fu molto doloroso constatarlo.
Il preside della scuola ebraica, il professor Cimino, era stato nominato dal Ministero e non era ebreo. Spesso entrava in classe e con piglio deciso incitava i ragazzi a studiare, dovevano dimostrare, malgrado ciò che si diceva, che non erano inferiori a nessuno, il suo fu un gesto di grande conforto e stimolo per tutti. Gli spazi erano inadeguati, ma il corpo docente era molto valido e in quella scuola si trovò bene, l’attenzione riservata agli alunni, anche a quelli in difficoltà, era grande e tra i ragazzi si instaurarono rapporti di amicizia destinati a durare per sempre.
Dopo l’8 settembre ’43 la situazione precipitò, la scuola fu chiusa e gli ebrei, braccati , dovettero solo pensare a nascondersi per evitare l’arresto.
La famiglia sfuggì alla retata del 16 ottobre ’44 solo grazie all’ospitalità di conoscenti che abitavano al terzo piano dello stesso palazzo. Ma successivamente i genitori bussarono a tutti i conventi del quartiere romano di Monteverde, dove qualcuno aveva trovato rifugio, ma non avevano il denaro richiesto per il mantenimento e per loro le porte rimasero chiuse.
Col passare dei mesi riacquistarono tuttavia una certa tranquillità e con il trascorrere dei giorni si sentirono sempre più al sicuro.
Il 7 aprile ’44 era la vigilia della Pasqua ebraica, tutta la famiglia si radunò per festeggiare e si unì a loro anche uno zio che aveva trovato ospitalità in una chiesa dell’ostiense. Ma, proprio mentre erano immersi nella lettura dei testi rituali, sentirono bussare. Nella stanza fecero irruzione due SS e due fascisti che intimarono a tutti di prendere poche cose in fretta e di seguirli. A tradirli era stato un giovane fascista che oltretutto corteggiava la sorella di Piero, lo fece sicuramente per denaro, su ogni ebreo pendeva infatti una cospicua taglia di 5mila lire.
Caricati su di un’ambulanza vennero trasferiti al Collegio Militare dove, all’ufficio di immatricolazione, furono schierati faccia al muro con il divieto di parlare e di voltarsi. Ma Piero infranse il divieto e si voltò verso il padre che gli stava sussurrando di conservare sempre la dignità, qualsiasi cosa fosse accaduta. Fu punito con una tremenda botta sul collo che lo fece cadere a terra.
Vennero rinchiusi in una cella con dei prigionieri politici non ebrei che mostrarono una grande umanità nei loro confronti, cercando di alleviare in tutti i modi possibili la loro detenzione.
Poi ci fu il trasferimento al campo di Fossoli dal quale il fratello di Piero, Cesare, con alcuni amici cominciò a progettare una fuga. Ma si temevano le ritorsioni annunciate per chi avesse tentato l’impresa e alla fine solo un certo Marco Brandes, che non aveva familiari nel campo, decise di passare all’azione, riuscendovi.
Il trasferimento ad Auschwitz iniziò il 16 maggio. Ai deportati, già stremati per le condizioni del viaggio nei vagoni bestiame, fu concessa una sosta nel comune di Ora, in provincia di Bolzano, per rifornirsi di acqua. Dovevano scendere dai vagoni e raggiungere un posto di ristoro attraversando un piazzale, tra due ali di SS. Dal lato opposto a quello da cui si accedeva al punto di ristoro, c’era una seconda uscita che dava su di un piazzale incustodito. Avrebbe potuto essere una via di salvezza, ma nessuno ebbe il coraggio di approfittarne, troppo grande era il timore delle rappresaglie.
Il convoglio ripartì e giunse ad Auschwitz il 23 maggio, Piero e i familiari avevano viaggiato, come molti altri, su vagoni diversi e appena scesi si cercarono. Era con il padre, lo zio e il nonno, subito individuò i fratelli e con loro si mise alla ricerca della madre e della sorella in un baillame di urla e di violenze. Le videro da lontano, si tenevano per mano e subito andarono loro incontro incuranti delle bastonate e degli ordini urlati dei tedeschi, le raggiunsero. La madre era terrorizzata, li cinse in un abbraccio, posò le mani sul loro capo come in atto di benedizione e mormorò : ” Adesso andate, non ci vedremo più”
Aveva già capito tutto, non la videro mai più. E mentre ancora erano sulla Rampa, un fratello di Piero osservò : “Sento uno strano odore di carne bruciata…” Come tutti gli altri non sapevano nulla del luogo in cui erano giunti.
Superata la prima selezione, entrò nel lager e fu destinato al campo di aviazione dove si recuperavano lamiere e pezzi di ricambio. Aveva sedici anni, il lavoro era molto pesante, i ritmi sfiancanti , ma era anche agile e incosciente. Sfidando tremende punizioni riusciva a concedersi ogni tanto delle pause nascondendosi sotto i rottami. Un compagno di baracca, Amadio Moscati, lavorava al Kanada e ogni sera, correndo altissimi rischi, riusciva a trafugare delle piccole cose che distribuiva agli amici dopo averle sottratte nell’immenso magazzino in cui venivano ammassati i bagagli dei deportati. Fu di fondamentale e prezioso aiuto per il corpo e per il morale in un contesto che aveva dimenticato e stravolto ogni concetto di amicizia e di solidarietà. Struggenti erano anche i momenti in cui Nedo Fiano, un deportato fiorentino, con la sua bellissima voce trovava la forza di cantare per i compagni donando a tutti qualche minuto di oblio e di sollievo intonando canzoni italiane che sapevano di casa e di un tempo diverso che appariva lontanissimo e perduto per sempre.
A causa delle frequenti selezioni molti, da un giorno all’altro, scomparivano inghiottiti dalle camere a gas e ogni sera gli scampati sapevano di essere stati fortunati. La tensione a poco a poco si allentava e quando la vita aveva ripreso il suo corso normale talvolta riuscivano persino, malgrado tutto, a scambiare qualche battuta e a scherzare. Ma erano solo giochi dettati dalla disperazione e dal fatalismo che subentrava con l’abitudine alla morte e alle selezioni, come quello di cercare di indovinare a chi sarebbe toccato la volta successiva.
All’incubo costante delle selezioni, alla fame, al freddo e alla fatica si aggiungevano anche le punizioni dovute ai motivi più vari e più futili. Una di queste consisteva nel far correre i prigionieri puniti per il campo a suon di bastone fino a farli giungere in prossimità di una vasca chiamata piscina. Alcuni erano poi costretti a tuffarvisi, risalire era impossibile perchè i bordi erano piani inclinati verso l’interno e l’acqua non riempiva interamente l’invaso. A volte chi annaspava convulsamente veniva fatto uscire con l’aiuto di una corda o di un bastone, altre volte no.
Non tutte le SS potevano però apparire crudeli, ce n’era una, un ragazzo di circa vent’anni che sembrava diverso. Era sorridente, educato, non esercitava violenze di alcun genere. Spesso era incaricato dell’appello, sembrava una persona perbene, ispirava quasi fiducia, sembrava normale in un luogo in cui niente e nessuno era normale. Un giorno però sopraggiunse in bicicletta mentre suonava un allarme e quando vide un gruppo di prigionieri correre in direzione delle baracche, impugnò il mitra che aveva montato sul manubrio e cominciò a sparare, fece una strage. Un’esplosione improvvisa e inaspettata di violenza certamente non dovuta a degli ordini e che rispondeva all’inquadramento che aveva ricevuto.
Quando Piero Terracina fu destinato ad un kommando di punizione chiamato Kӧnigsgraben, addetto allo scavo di canali, la sua squadra per raggiungere il luogo di lavoro doveva passare dietro il campo in cui erano internate le donne e vicino a i crematori. Allora gli capitava di vedere degli enormi falò nei quali venivano continuamente gettati da dei camion i corpi delle persone che non potevano essere bruciate nei forni crematori già al limite della capienza e questo dava l’idea del numero altissimo di persone che venivano eliminate secondo una pratica quotidiana che non conosceva soste né limiti.
Lo zio gli mandò a dire un giorno che stava andando a morire, ma non doveva rattristarsi troppo, era meglio così per lui, gli mandava la sua benedizione.
Del destino toccato agli altri parenti, nelle testimonianze rese nel corso degli anni, Piero Terracina non ha mai parlato se non con brevi e parziali accenni, il ricordo era presumibilmente troppo doloroso per lui, fu l’unico della sua famiglia a tornare.
Quando il campo venne evacuato nel gennaio 1945, fu tra quelli che non parteciparono alla marcia della morte perchè ammalati o non in grado di camminare. Abbandonati a se stessi i prigionieri vagavano alla disperata ricerca di cibo e di acqua. Scioglievano la neve per dissetarsi e in un magazzino la prima cosa che lui e alcuni compagni trovarono fu un barattolo da cinque chili di conserva di pomodoro Cirio e dell’aglio. Non persero tempo a cercare altro, la fame spaventosa accumulata nei mesi di prigionia non lo consentiva, avidamente si buttarono su conserva e aglio.
Quando finalmente arrivarono i russi, nessuno gioì, la comprensione di quello che significava la partenza dei tedeschi e l’arrivo dei soldati sovietici non fu immediata. I lunghi mesi passati tra orrori e sofferenze indicibili avevano spento non solo le energie del corpo ma anche quelle della mente, ci volle tempo per capire il mutare della situazione. E nel campo si continuava a morire, nelle baracche e negli spazi liberi, nella neve e nel fango. Chi era in grado di farlo, aiutava i soldati nello sgombero dei corpi di coloro che, ad un soffio dalla libertà, non ce l’aveva comunque fatta.
Il sedicenne ebreo romano, matricola A-5506 che pesava 38 chili, venne trasferito poco dopo in un ospedale militare russo dove ricevette massicce cure che gli permisero di ristabilirsi. Trasferito quindi nel Caucaso, fu anche arruolato nell’ Armata Rossa e cominciò per lui una lunga odissea che gli fece temere di non riuscire più a rientrare in Italia. Ma nel dicembre 1945 finalmente tornò, fu l’ultimo dei deportati italiani a rimpatriare.
Ma il ritorno a Roma non fu facile. Ogni sopravvissuto doveva recuperare energie fisiche e mentali per riuscire di nuovo a vivere una vita normale, non fu semplice per nessuno.
Solo il sostegno e l’aiuto di amici e cugini gli permisero col tempo di adattarsi alla solitudine e ad una realtà fatta di lavoro e di valori condivisi. Ma chi era passato attraverso l’esperienza di Auschwitz non poteva tornare ad essere una persona del tutto normale, il peso dei ricordi affiorava negli incubi. Di notte l’angoscia e l’orrore sperimentati nel campo di concentramento tornavano e di giorno doveva rimuoverli per tornare a vivere, gli sembrava di essere scisso in una doppia vita e per molti anni non parlò con nessuno dei mesi trascorsi nel lager, temeva anche di non essere creduto perchè ciò che era stato poteva sembrare aldilà di ogni immaginazione.
Ma in seguito ai rigurgiti antisemiti degli anni ’90 e in particolare dopo la profanazione delle tombe ebraiche nel cimitero francese di Carpentras, si decise a rompere il silenzio. Diventò un testimone e incontrò soprattutto ragazzi in scuole di vario ordine e grado, sottolineando in particolare l’indifferenza generale nella quale milioni di persone innocenti vennero mandate a morire. Ricordava sempre che si sarebbe potuto impedire come era accaduto in Danimarca dove il re aveva preso una posizione netta a favore degli ebrei o in Bulgaria dove il governo fascista si era comunque opposto alla deportazione.
La sua attività di testimone gli costò minacce e intimidazioni, la lapide commemorativa posta sul marciapiede della sua casa romana in ricordo dei familiari morti ad Auschwitz fu oggetto di atti vandalici. Ma non si arrese e continuò la sua preziosa opera.
Il 23 marzo 2015 gli è stata conferita dal Magnifico Rettore Gianmaria Palmieri dell’Università degli Studi del Molise una laurea honoris causa in Scienze della Formazione Primaria per la sua instancabile attività di informazione e sensibilizzazione nei confronti dei più giovani.